I DISAGI DELLA VITA MILITARE

È la sera del 20 gennaio 1942 e fa freddo a Scigliano. Fa freddo anche nei locali del Ginnasio dove è acquartierato il 445° Battaglione Territoriale Mobile Costiero, per la sorveglianza del materiale bellico lì accantonato. L’Ufficiale di Picchetto, Sottotenente Raffaele Bisignani, fa il giro delle aule adibite a camerate dove sono da poco arrivate alcune reclute e tutto sembra tranquillo.
Tra i nuovi arrivati ci sono il trentaduenne Eugenio Leporace di Bonifati e Arturo Romano di Longobucco, le cui brande sono una accanto all’altra. Leporace, da poco uscito dal carcere per una breve condanna inflittagli dal Pretore, è nervoso: quella divisa non avrebbe proprio voluto indossarla. Fuma una sigaretta dietro l’altra, scuote la testa e agita le mani come se stesse discutendo con qualcuno; Arturo Romano vorrebbe dormire ma cerca in tutti i modi di consolare il commilitone. Non c’è niente da fare, Leporace è sempre più nervoso e Romano, vinto dalla stanchezza, si gira dall’altra parte e si addormenta lasciando l’altro a discutere con i suoi fantasmi.
– Signor Tenente… signor Tenente… correte! Nella camerata dei nuovi c’è un ferito! – sono le 8,30 quando un soldato porta la novità al Sottotenente Bisignani, il quale corre a vedere cosa diavolo sia successo.
Nella prima camerata trova Leporace con le mani dietro la schiena e la testa bassa, immobile come una statua. Bisignani gli si avvicina.
– Ha un rasoio nelle mani, attento signor Tenente! – lo avvisa il militare, ma non c’è bisogno. A Bisignani basta allungare una mano perché Leporace, docile come un agnellino, gli porga l’arma. Adesso bisogna correre nell’altra camerata, il ferito è lì.
Arturo Romano è steso a terra, si tiene una mano alla gola, perde molto sangue e respira a fatica. Il Sottotenente Bisignani non perde tempo e lo fa caricare su di una camionetta per portarlo all’ospedale. Se la caverà.
Leporace, al quale hanno tolto di dosso, come prescrive il regolamento militare, tutti i suoi effetti personali nonché le fasce, i lacci delle scarpe, la cinghia dei pantaloni, il cinturino della giubba e le stellette, è chiuso in una stanzetta adibita a cella e si rifiuta di rispondere alle domande che gli vengono fatte sul perché di quell’assurdo gesto.
– No, non hanno litigato – racconta il soldato Egidio Grosso, paesano di Leporace, che dorme in quella stessa camerata – anzi stamattina erano seduti di fronte tranquillamente quando Leporace, estratto il rasoio, lo colpì dicendo: “Te ne voglio portare con me!”.
Un’improvvisa alterazione psichica, determinata forse dai disagi della vita militare per cui, avendo preso la determinazione del suicidio, gli venne il bestiale desiderio di veder morire altri prima di lui – è l’unica spiegazione che Bisignani riesce a trovare per giustificare l’aggressione, poi ordina che al prigioniero venga portata della paglia per improvvisargli un giaciglio, visto che nella stanzetta non c’è il tavolaccio.
– Controllatelo spesso, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio – raccomanda ai piantoni.
Sono le 18,00 e il turno di servizio di Bisignani termina dopo 24 ore filate. A prendere il suo posto è il Sottotenente Giuseppe Vangelisti, il quale riceve anche la consegna di badare al prigioniero, cosa a cui provvede immediatamente con una nuova, minuziosa perquisizione, che dà esito negativo. Dopo una mezzoretta Vangelisti torna a visitare il prigioniero in compagnia di un soldato per accertarsi che abbia consumato il rancio. Fa scattare la serratura e gira il pomolo della maniglia. Qualcosa non va: la porta fa resistenza e non si apre.
– Leporace! Leporace apri la porta! – urla senza però ottenere risposta. Poi, rivolto al soldato dice – ma come diavolo avrà fatto a bloccare la porta se nella stanza non c’è altro che paglia e addosso non ha niente? Chiama qualcun altro e buttiamo giù la porta.
A spallate e spintoni la porta pian piano gira sui cardini e adesso c’è spazio sufficiente a far entrare l’ufficiale. Lo spettacolo non è dei migliori: Leporace è dietro la porta, col pastrano militare abbottonato, quasi disteso per terra con un fil di ferro attorcigliato intorno al collo, legato alla maniglietta interna della porta, all’altezza di circa 65 centimetri dal pavimento, per cui la testa e parte delle spalle risultano sollevate da terra per circa 35 centimetri.
Morto.
Il volto si presenta tumefatto, la lingua quasi sporgente ed annerita, le mani rattrappite ed annerite, le ginocchia piegate quasi ad angolo. Accanto al cadavere ci sono la bustina copricapo, residui di pane e paglia sporca.
– Come cazzo si trova qui questo fil di ferro? Gli ho perquisito anche le mutande! – Vangelisti è furente, potrebbero arrivare guai seri per lui e per Bisignani. Potrebbero.
La paglia. La soluzione del rebus è la paglia.
La paglia viene a noi fornita da Cosenza in balle compresse, legate con filo di ferro[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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