La mattina del 29 luglio 1921 nella Pretura di Verbicaro si discute la causa contro il diciassettenne Filippo Zito, il ventiduenne Ferdinando Crusco, ventenne Attilio Muti e il diciassettenne Rosario Mazza, imputati di violazione di domicilio e lesioni personali nei confronti del ventiduenne Antonio De Marco e dei suoi fratelli Giuseppe e Francesco, tutti di Grisolia. In Pretura, quella mattina ci sono altri compaesani chiamati a comparire come testimoni nella stessa causa. Terminata l’udienza, imputati e parte lesa se ne vanno tutti insieme come buoni amici a bere e mangiare qualcosa in una cantina di Verbicaro: un paio di litri di vino e una scatoletta di salmone in conserva che vengono pagati da De Marco e Crusco perché gli altri non hanno soldi, ma mettono sul tavolo dei pezzi di pane e formaggio per compensare la spesa.
Sono le tre del pomeriggio quando si avviano verso Grisolia a passo svelto, cantando canzoni di carcerati. Lungo la strada si imbattono in tre compaesani, Felicia Tosto e i coniugi Pietro Serra e Angela Servidio, i quali osservano quasi divertiti quelli che sembrano scherzi rivolti nei confronti di Filippo Zito.
– Cammina… cammina…non fa niente… ma mena, Filì! – gli dicono spingendolo.
– Lasciatemi… andatevene… io non vi fo niente… – risponde Filippo con un tono di voce supplichevole. Poi l’atteggiamento dei molestatori cambia e fa cambiare idea anche a chi ci sta ridendo su – Tu hai la faccia del carogna… tu sei un infame! – comincia a urlare Antonio De Marco.
Zito affretta il passo seguito da Crusco e De Marco che lo raggiungono proprio accanto alla chiesuola della Madonna del Rito, in direzione di un’aia ove dei contadini trebbiavano il grano. Zito è afferrato dagli altri due; lo buttano a terra, se lo mettono sotto e lo tempestano di pugni, gomitate e ginocchiate. Il malcapitato, impotente a liberarsi, comincia a gridare:
– Lasciatemi stare… lasciatemi stare… non vi ho fatto niente… – ma i due aggressori non se ne danno per intesi e continuano a picchiarlo finché non arrivano gli altri compagni di viaggio che li separano.
– Che cosa è successo? – chiede Pietro Serra ai contendenti.
– Mi ha aggredito con un rasoio e mi ha tagliato una mano e poi voleva lanciarmi delle pietre – è pronto a rispondere Antonio De Marco mostrando il dorso della mano sinistra sanguinante, quindi continua a borbottare minacce irripetibili. Zito, da parte sua, pieno di paura si mette a camminare in mezzo ai coniugi Serra e nega a questi di aver mai portato un rasoio e, soprattutto, di aver mai ferito De Marco alla mano sinistra. Angela Servidio, maritata Serra, a questo punto pretende di perquisirlo, gli mette le mani in tasca e ne cava un coltellino senza punta, di quelli che servono per lavoro ai contadini.
– Santo zio Pietro… Santa zia Angela… se non era per loro a quest’ora saresti sfatto! – urla De Marco a Filippo Zito.
Ripreso il cammino, De Marco e Crusco continuano a molestare Zito con parole e con spinte e come Dio volle si giunse nel letto del fiume Abatemarco fra il territorio di Grisolia e quello di Verbicaro, dove la compagnia si unisce ad altri due compaesani, proseguendo insieme fino alla Salita di Pignata. Qui, i coniugi Serra, Zito e Felicia Tosto proseguono per la via del Monte, mentre gli altri prendono la strada di Vozzino.
Dopo un po’ di strada Felicia Tosto si ferma in un suo piccolo fondo agricolo mentre i Serra e Zito proseguono oltre per fermarsi nella casa colonica dei Serra. Dopo circa un’ora Felicia riprende il cammino e quando passa vicino alla casa dei Serra chiama l’altra donna:
– Angela! Io adesso me ne vado… mi ritiro…
– Siccome te ne vai, portati a Filippo che è ancora qui… io e mio marito ci ritireremo tardi – le risponde Angela Servidio. E così Filippo Zito riprende il cammino verso il paese con Felicia, che ha uno zappone messo a bilancere sulla spalla. Il ragazzo, cortesemente, lo prende e se lo carica sulla sua.
La via del Monte è molto battuta e i due giovani si uniscono ad un’altra coppia. Filippo, che teme di essere nuovamente aggredito, adesso si sente più sicuro perché sa che l’uomo che è con loro ha il porto di rivoltella e, d’altra parte, la tiene in bella mostra alla cintura.
Non passa molto tempo che in lontananza, in località Serrone Rinazzo e precisamente vicino alla cosidetta Capanna Varata, vedono tre uomini seduti su una pietra. Filippo e Felicia capiscono subito di chi si tratti e la conferma la hanno appena arrivano a poche decine di metri da quegli uomini: Antonio De Marco, Ferdinando Crusco e Rosario Mazza, tutti e tre con dei grossi bastoni in mano. Filippo è terrorizzato ma continua a camminare, sussurrando a Felicia:
– Questo – indicando l’uomo che è con loro – ha il permesso d’arma e potrebbe arrestarli – e così dicendo gli si mette al fianco.
I tre, appena li vedono, si alzano in piedi, si uniscono al gruppetto e ricominciano a provocare Filippo con parole all’orecchio, lo spingevano ed ogni tanto gli dicevano: cammina… cammina… e Zito stava muto. Arrivati in località San Brancato, a circa un chilometro dal paese, De Marco, all’improvviso, vibra una tremenda palata sulla testa di Filippo Zito che stramazza al suolo, come cadde a terra lo zappone che aveva appeso ad una spalla. De Marco non ha finito e gli assesta altre due violente bastonate che colpiscono il povero Filippo, già privo di sensi, ancora alla testa e poi all’avambraccio sinistro, quindi scappa per i campi. Nessuno è intervenuto in sua difesa, solo Felicia si avvicina per sincerarsi delle condizioni di Filippo, che è ancora privo di coscienza. Dopo qualche minuto, però, riapre gli occhi e comincia a farfugliare:
– Mara mia ca m’anu ammazzatu… ahi ‘a capu… m’anu ruttu ‘a capu… m’anu spezzatu ‘u vrazzu…
Felicia si sforza di aiutarlo a rimettersi in piedi ma non c’è verso di farlo muovere, sembra paralizzato.
– Stai qui che io vado ad avvertire i tuoi genitori – cerca di rassicurarlo mentre si avvia verso il paese, ma fatti una trentina di passi Felicia si gira e vede Filippo in piedi che comincia a camminare, seppur malfermo sulle gambe.
– Mamma mia m’anu ammazzatu… ahi ‘a capu… m’anu ruttu ‘u vrazzu… – continua a cantilenare. Felicia, tranquillizzata, lo saluta da lontano e se ne va per la sua strada. Ma Filippo non ce la fa a camminare da solo e deve essere sorretto da Ferdinando Crusco e Rosario Mazza i quali si dichiarano grandi amici suoi, consigliandogli perfino di andare a denunciare De Marco dai Carabinieri e così lo accompagnano fin dentro la caserma, dove sporge querela. Poi le sue condizioni peggiorano e, chiamato il medico, si decide di portarlo a casa, dove in poche ore cessa di vivere. Frattura della base del cranio, dirà l’autopsia. Adesso si procede per omicidio.
Antonio De Marco viene rintracciato, arrestato e interrogato
– Ieri mattina alla Pretura di Verbicaro c’era un’udienza della causa nella quale io e i miei fratelli siamo parti lese e Filippo Zito, Ferdinando Crusco e Rosario Mazza gli imputati di lesioni e violazione di domicilio. Lungo la strada per tornare a Grisolia, Zito ha cominciato a insultarmi chiamandomi strunzo, carogna, infame. Mi ha anche minacciato e di tanto in tanto metteva le mani in tasca come per cacciare qualche arma. Ad un certo punto Zito mi è venuto davanti impugnando un rasoio con l’intenzione evidente di ferirmi e gridava: Largo che vi rasulìo, largo che se no vi rasulìo… questa sera la mia o la tua! Io, vistomi in pericolo, l’afferrai perché più forte, lo menai a terra e gli detti qualche pugno per cacciargli il rasoio. Venne in mio aiuto Crusco e fra tutti e tre vi fu una colluttazione, durante la quale io fui ferito col rasoio alla mano sinistra, senza riuscire a togliere l’arma a quel cattivo soggetto. – dice al Pretore mostrando la mano ferita, poi continua – Venimmo separati e Angela Servidio tolse a Zito il rasoio che aveva il manico bianco che luceva e lo sostituì con un coltello. Io e Crusco allungammo il passo e ci fermammo sul greto del fiume Abatemarco dove trovammo anche Mazza Rosario e Muti Attilio che ci aspettavano e insieme arrivammo fino alla biforcazione della strada e, per farci asciugare il sudore ci mettemmo seduti. Dopo un po’ sopraggiunsero gli altri compaesani, tra i quali c’era anche Zito, e proseguimmo tutti insieme fino a San Brancato. Arrivati all’altezza della mia casetta colonica, lui ricominciò a insultarmi e io non vidi più dagli occhi e dissi a Zito: Dal momento che sono carogna, se hai coraggio caccia adesso il rasoio… caccia il rasoio che te lo faccio cadere… e mentre gli dicevo queste parole gli tirai un colpo con un palo di sambuco che avevo trovato per terra sulla strada di Vozzino. Zito al colpo cadde a terra insieme ad uno zappone che aveva appeso ad una spalla ed io scappai. Non avevo intenzione di uccidere Zito e faccio presente che egli era fradicio, che aveva il male dell’arco (itterizia. Nda), cioè era giallo come il fiore dello sparto (la ginestra. Nda).
– I testimoni presenti al fatto raccontano cose completamente diverse da ciò che hai appena detto e anche i tuoi stessi amici ti accusano – gli contesta il Pretore che ha già interrogato tutti gli altri.
– Zito è morto e io pago… io mi sono infossato e gli altri invece la passano liscia. Io questa volta ci sono capitato buono, ma visto che ci sono capitato, voglio dire che Crusco e Mazza durante il viaggio da Grisolia a Verbicaro e da Verbicaro a Grisolia non una, ma mille volte mi aizzarono contro Zito, mi spinsero a fargli una palìata ed io che sono uno stupido ho fatto la palìata… io sono infossato e gli altri due stanno a casa…
Sono parole pesantissime che potrebbero spalancare le porte del carcere anche a Crusco e Mazza, se si trovasse qualche riscontro. Il Pretore a questo punto richiama i testimoni e ottiene le conferme che cerca: l’atteggiamento dei due è parso a tutti i presenti proprio quello di chi è consapevole di ciò che sarebbe accaduto tra De Marco e Zito e così viene immediatamente emesso un mandato di cattura per i due amici che si dichiarano estranei ai fatti, ma per la Procura ci sono tutti gli elementi necessari per chiedere il rinvio a giudizio nei confronti di tutti e tre gli indagati. La Sezione d’Accusa però non è d’accordo su questa impostazione e ordina il non luogo a procedere per Crusco e Mazza. Antonio De Marco resta l’unico imputato dell’omicidio volontario di Filippo Zito e, in attesa che cominci il dibattimento, viene trasferito nel carcere del capoluogo di Provincia dove comincia a manifestare disturbi mentali che vengono precisati nei seguenti rapporti del medico e del Direttore delle Carceri all’Autorità Giudiziaria.
De Marco Antonio da vari giorni dà segni evidenti di alienazione mentale; il medesimo si dimostra pericoloso per sé e per gli altri e per conseguenza sarebbe necessario ed urgente farlo ricoverare in un manicomio – scrive il Direttore del carcere, che aggiunge – un giorno si produsse lievi lesioni alla braccia dandosi dei morsi così pure dette un morso al braccio di uno dei detenuti comandato a piantonarlo. Attualmente egli è in relativa calma ma ha idee confuse, né ricorda le stranezze alle quali si abbandona.
Il medico del carcere è più preciso nel descrivere i disturbi di cui soffre De Marco:
Spesso grida fino a disturbare l’ordine dello Stabilimento, rifiuta il cibo, non ubbidisce ad alcuno, si avventa contro gli agenti e contro i compagni, onde si è obbligati a tenerlo a letto di sicurezza. Ha anche delle alterazioni sensoriali, allucinazioni visive ed uditive, spesso commette gli atti più strani come, per esempio, andare a bere nel suo orinale, non dorme e il suo stato generale è fortemente deperito.
Il 3 settembre 1922 Antonio viene ricoverato nel manicomio giudiziario di Aversa, dove viene giudicato come tipo primitivo con probabili ricorrenze epilettoidi e quindi dimesso e trasferito nel carcere di Nicastro.
Il 3 luglio 1923 si apre il dibattimento ma subito c’è un colpo di scena: due testimoni, Angelica Consiglio e Fedele Franco, giurano di essere a conoscenza diretta del fatto che Crusco Ferdinando e Mazza Rosario furono quelli che determinarono il De Marco Antonio a dare le legnate allo Zito quel giorno che tornarono dalla Pretura di Verbicaro. In seguito a ciò il dibattimento viene interrotto al fine di riaprire l’istruttoria a carico dei due, per i quali viene di nuovo chiesto il rinvio a giudizio. Questa volta la Sezione d’Accusa si convince del coinvolgimento di Crusco e Mazza e ne dispone il rinvio a giudizio.
Quando il dibattimento ricomincia avviene un altro colpo di scena: molti testimoni assicurano che le condizioni mentali di Antonio De Marco sono precarie, come se non lo si sapesse già, e il Presidente della Giuria richiede il ricovero dell’imputato in un manicomio giudiziario per sottoporlo a perizia psichiatrica.
Il 28 novembre 1923 Antonio De Marco entra nel manicomio giudiziario di Napoli per essere osservato dai dottori Vittorio Madia e Riccardo Lombardo.
I periti scoprono che il padre di Antonio risulta che era “pazzo” e morì nel 1907 per assideramento mentre la madre, che si risposò sette anni più tardi, a detta del paziente soffre di convulsioni.
Consta che da fanciullo abbia abitualmente orinato il letto durante il sonno ed egli stesso ricorda che la madre spesso, per tal motivo, gli ripeteva: “te l’attacco con un filo di spago e così non piscerai più nel letto”. Tale inconveniente, a dire dello stesso, gli si è ripetuto anche da giovanotto, ma con minore frequenza e gli è cessato del tutto nel settembre del 1922. Riferisce che all’età di dodici anni contrasse la malaria e che, dopo due anni, cominciò ad avere convulsioni con perdita totale della coscienza a cui si sostituirono, in parte, accessi allucinatorii (allucinazioni paurose terrifiche) ed accessi confusionali con consecutiva amnesia che gli si ripetevano alla distanza di quattro, cinque mesi e l’ultimo attacco lo ebbe nell’agosto dello scorso anno. Fu dedito al vino, bevendo al massimo fino a due, tre litri al giorno; non andò mai a scuola; chiamato alle armi con la sua classe di leva (1899) fu destinato al 6° Reggimento Fanteria in Palermo, ove prestò servizio circa sei mesi poi fu inviato in osservazione presso quell’Ospedale Militare Principale, dal quale, dopo una quindicina di giorni di degenza, fu trasferito al Manicomio Provinciale. Qui rimase fino ai primi dell’aprile 1918. risulta poi che in data 11 stesso mese fu ammesso al Manicomio Interprovinciale Vittorio Emanuele II in Nocera, ove restò ricoverato fino al 25 maggio successivo perché giudicato affetto da “confusione mentale allucinatoria in frenastenico”. Ritornato in famiglia, dopo circa un anno, contrasse matrimonio ma ben presto si divise dalla moglie che, secondo le di lui asserzioni, lo tradiva.
Madia e Lombardo osservano che Antonio si presenta con incesso pesante e con atteggiamento vuoto e fatuo; risponde con aria distratta e con espressioni bambinesche, per nulla meravigliato di essere insistentemente interrogato su fatti intimi da persona a lui estranea – spesso si coglie un sorriso stupido sulle sue labbra, spesso, per motivi futili si abbandona a sonore risate. Egli sa di essere in una casa di salute, ma non è convinto (“i malati dovrebbero stare a letto, invece qui sono tutti impiedi”). Esclude d’altra parte di essere in carcere perché, egli dice, “nel carcere si va una volta al giorno all’aria, invece qui ci stiamo tutto il giorno”.
Durante il ricovero Antonio è colpito da una convulsione, che così è osservata direttamente dagli specialisti. È la svolta nella diagnosi: la perdita completa della coscienza, la completa amnesia dell’accesso patito e degli atti compiuti dopo la crisi, la caduta repentina in posizione incomoda con produzione di lesioni (sangue dal naso), l’aura sensoriale con cui s’inizia l’accesso (allucinazioni terrifiche caratteristiche), la mancanza di pose passionali, di grandi contorcimenti, la breve durata dell’attacco, indicano in modo assoluto la natura epilettica della crisi.
Che Antonio sia chiaramente un epilettico non significa che non sia penalmente punibile se l’atto criminoso non fa parte di una crisi epilettica o costituisca di per se stesso un suo e completo equivalente psichico, osservano Madia e Lombardo, citando l’articolo 46 del vigente Codice di Procedura Penale. Diverso è il caso quando un atto criminoso è la manifestazione non di una crisi epilettica ma del carattere abituale proprio dell’epilettico e specie quando un epilettico presenta, negli intervalli tra gli accessi, condizioni psichiche del tutto normali e l’atto è commesso in stato di lucido intervallo. In questo caso, poi, l’imputato ricorda e descrive le varie fasi della lite, seppe inibirsi in un primo tempo e preordinò l’aggressione armandosi di un poderoso bastone quindi, in quel momento, non era completamente soppressa la coscienza e la libertà dei suoi atti. Sicuramente Antonio De Marco è punibile, dicono i periti ma poi gli lanciano un salvagente: Dall’altra parte non può escludersi che, sia per la natura del suo carattere, sia per l’eccitamento occasionale rappresentato dall’alcool (erano andati a bere in cantina) che egli si trovasse in istato di morbosa iracondìa ad esplosioni mano a mano progressive che annebbiavano la sua coscienza e fiaccava la padronanza dei suoi poteri inibitori, ostacolando la libertà delle sue azioni. Quindi, la sua malattia (epilessia) ha esercitato la sua efficacia sulla coscienza e sulla libertà degli atti non in tutto, ma in parte, in guisa da fare scemare grandemente la sua imputabilità, senza escluderla.
Adesso il dibattimento può riprendere, i colpi di scena si sono esauriti. Antonio De Marco raggiunge in carcere il solo Rosario Mazza perché di Ferdinando Crusco non si hanno più notizie e sarà giudicato in contumacia. I testimoni ricominciano a sfilare davanti ai giudici e mentre la posizione di Crusco si va aggravando, quella di Rosario Mazza si alleggerisce.
Il 4 dicembre 1924 la giuria emette i verdetti: Rosario Mazza viene assolto per non aver concorso al fatto; Ferdinando Crusco viene condannato a 7 anni e 6 mesi di reclusione per complicità non necessaria nell’omicidio volontario in persona di Zito Filippo; Antonio De Marco, in considerazione della sua scemata imputabilità, viene condannato a 3 anni e 4 mesi di reclusione.
Non è tutto finito però. Il 4 giugno 1925 Ferdinando Crusco si costituisce ai Carabinieri di Grisolia e il suo difensore, Pietro Mancini, invoca la rinnovazione del dibattimento a norma dell’art. 475 C.P.P. e precisa: Il povero Crusco avendo saputo in America, dove si trovava, la sua ingiusta condanna (egli era partito perché già prosciolto) è tornato in Italia e si è presentato volontariamente.
L’11 dicembre 1925 si riapre il dibattimento e anche questa volta i colpi di scena non mancano: i due testimoni chiave Angelica Consiglio e Franco Fedele ritrattano e dicono di non essere a conoscenza diretta ma di aver dedotto dalla voce pubblica che Mazza e Crusco istigarono De Marco a uccidere il povero Filippo Zito. La conseguenza logica è che in mezza giornata il processo termina con l’assoluzione di Crusco per non aver concorso al fatto e ne viene ordinata l’immediata scarcerazione.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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