ORRORE SULLE RIVE DEL FIUME

Il fattorino bussa trafelato alla porta della caserma dei Carabinieri di Caccuri e, gesticolando in modo scomposto, consegna il telegramma proveniente dal vicino comune di Casino (l’attuale Castelsilano, nda) al Carabiniere chi gli apre la porta, poi aspetta, come fa di solito, la risposta.
Perlamadonna! – il Brigadiere Saverio Filippone bestemmia appena ne legge il contenuto. Sono le 15,00 del 19 aprile 1922 – preparatevi che dobbiamo uscire immediatamente!
Denunziamovi essere stamane nel fiume Lese prossimità trappeto Alessio rinvenuto cadavere ignudo di un giovanotto pregola disporre sopraluogo stop pretore viciniore S. Severina essendo pretore Savelli assente per licenza stop Ignorasi causa morte
Sindaco Casino
Filippone e due Carabinieri si precipitano nel vallone del fiume Lese e nel punto indicato nel telegramma rinvengono, bocconi, il cadavere di un ragazzo dai tredici ai quindici anni, quasi del tutto immerso nelle acque impetuose, restando sulla riva solo la testa e le spalle. Il cadavere è completamente denudato dagli arti inferiori fino metà del tronco e gli arti superiori sono coperti da una maglia grigio sporco e da una camicia tutta raccolta in prossimità del collo. Il braccio sinistro è piegato sotto il petto e si vedono dalla parte destra le dita flesse ed un po’ del palmo della mano. L’arto superiore destro è disteso lungo il tronco con le dita della mano anch’esse flesse. Filippone nota parecchie ecchimosi lungo tutto il corpo e molte ferite sulla testa, attraverso le quali biancheggiano le ossa del cranio
– L’hanno ammazzato… e se lo lasciamo così l’acqua se lo porta, vedete di trovare qualcosa per assicurarlo alla riva – ordina il Brigadiere e l’unica cosa che trovano nei dintorni è un ramo di albero che ad una estremità ha la forma di un uncino. Con cautela fanno passare l’uncino dentro uno strappo della maglia e sull’altro capo del ramo sistemano una grossa pietra – secondo me qui l’ha portato la corrente, facciamoci una camminata per vedere se troviamo il resto degli abiti.
Filippone ha ragione. Circa duecento metri a monte trovano ammonticchiati degli indumenti. Il Brigadiere cava di tasca un mozzicone di lapis e un quaderno e comincia ad appuntare:
Un coltello a manico fisso lungo complessivamente circa 25 centimetri, dalla lama lunga circa 12 centimetri; sotto di esso un paio di pantaloni di taglio per giovinetto di fustagno nero in buono stato; immediatamente più sotto un panciotto d’identico taglio, stoffa grigio verde, alquanto malandato; più sotto ancora una giacca rattoppata con toppe di vario colore e lacera in parecchi punti e sdrucita, di colore marrone sbiadito, di stoffa quasi lana tessuta a righe; in fondo a tale mucchio e proprio sulla sabbia della riva una “calandra” (scarpa da mandriano di pelle non manifatturata). A circa quaranta centimetri da detto mucchio verso valle una cinghia di cuoio spezzata e riunita con due nodi. A un metro da questa, sempre verso valle, l’altra calandra ed un paio di calze da giovinetto tutte strappate alle estremità. Sui predetti indumenti non si notano tracce di sangue.
Tutto farebbe pensare che il ragazzo si sia spogliato volontariamente e poi ucciso.
Ormai è quasi buio e Filippone, lasciato un suo sottoposto a piantonare il cadavere, torna in caserma. La mattina successiva, all’alba, il Brigadiere e un Carabiniere cominciano a perlustrare le zone circostanti il luogo dove è stato rinvenuto il cadavere e si imbattono in un pastorello. Gli chiedono se sa qualcosa sull’accaduto e il ragazzo li illumina:
– Potevano essere le 11,00 di tre giorni fa, il 17, e io stavo pascolando le vacche quando mi si sono avvicinati due giovanotti di Casino che io conosco, Giovanni Iaconis e Rosario Mangone, che mi hanno chiesto del pane dicendomi che erano affamati in quanto erano latitanti siccome avevano ammazzato un individuo a colpi di scure.
– Ti hanno detto il nome del morto?
– Nossignore, non mi hanno detto altro.
Filippone adesso ha dei nomi e va a Casino per rintracciare i due e, una volta arrivato, scopre che Rosario Mangone si è costituito nelle mani del Sindaco e adesso è rinchiuso in una stanza del comune. Senza perdere tempo, due militari lo portano nella loro caserma. ma qui li aspetta un altro telegramma del sindaco di Casino col quale li avverte che anche l’altro sospetto si è costituito e bisogna andare a prenderlo in custodia. Volano bestemmie inenarrabili a causa della strada che bisogna rifare e quando arrivano di nuovo nel paese il Sindaco li prega di temporeggiare perché deve adoperarsi per calmare gli animi: in paese si è sparsa la voce che i due hanno ammazzato il tredicenne Peppino Torcasso di Savelli perché volevano violentarlo e la popolazione è inferocita.
– Vi faccio portare qualcosa da mangiare, ma per l’amor di Dio non vi muovete da qui finché non sarò tornato – li scongiura.
Ma il tempo passa e il Sindaco non torna, così i due Carabinieri pensano bene di avviarsi, tanto sono armati di rivoltelle e moschetti e nessuno oserà avvicinarsi.
Appena usciti sulla pubblica via alcuni compaesani del defunto ragazzo di Savelli che erano in mezzo ad una folla di popolo locale, si slanciarono contro il detenuto Iaconis per linciarlo ed i Carabinieri dovettero allora riparare se stessi ed il detenuto nel pubblico esercizio di Cosentino Giovanni, che di ciò mosse sentite lagnanze.
Sono istanti carichi di terrore quando la porta della cantina sta per cedere sotto i colpi della folla inferocita e si rischia seriamente che qualcuno possa anche rimetterci le penne, ma il Sindaco arriva giusto in tempo ad evitare il peggio e con il suo saper fare calma la folla. Carabinieri e detenuto sono salvi, ma nel tragitto qualche bastonata e parecchi sputi arrivano a bersaglio.
Tale fatto che avrebbe potuto portare delle serie conseguenze non si sarebbe certo verificato se i Carabinieri, in conformità di quanto loro avevo detto, non si fossero avviati senza il mio intervento, si lamenta il Sindaco raccontando l’accaduto in una lettera al Pretore di Savelli.
Il mio compagno Giovanni Iaconis la sera del 15 corrente, mentre dal fondo Misudera ritornavamo in paese, aveva incontrato un ragazzo di Savelli e l’aveva obbligato a stare in ginocchio con le mani sotto le ginocchie sue. – attacca Rosario Mangone – La mattina seguente, tanto io quanto Iaconis ritornammo in Misudera per far pascolare gli animali. Verso le ore dieci scendemmo alla spiaggia del fiume Lese in prossimità del fondo Felicia, dove dalla parte opposta del fiume era il ragazzo di Savelli chiamato Peppino, che custodiva alcuni porci. Iaconis disse al ragazzo di venire da noi guadando il fiume perché gli avrebbe regalato un suo temperino. A tale promessa il ragazzo si spogliò e, traversato il fiume, richiese allo stesso Iaconis il temperino promessogli. Il Iaconis si rifiutò e nello stesso tempo tolse al ragazzo un palo che aveva in mano e lo buttò nel fiume. Il ragazzo richiese allora il suo bastone, di rimando il Iaconis rispose: “Vieni con me a prendertelo perché è nel fiume” e quello lo seguì fino al punto indicato. Iaconis ha cominciato a spingerlo ripetutamente facendolo cadere nel gorgo profondo del fiume per quattro o cinque volte. Il ragazzo tentava di uscire e lui lo buttava di nuovo nell’acqua. Quando riuscì ad uscire, Iaconis continuò a percuoterlo con schiaffi e pugni, dopo di che lo condusse alla passerella poco lontana e passarono dall’altra parte. Iaconis sedette su una pietra obbligando il ragazzo Peppino di saltare nel fiume da una grossa pietra sulla quale era poggiato uno dei capi della passerella. Intanto io rimasi dalla parte opposta del fiume. Al rifiuto del ragazzo Peppino di tuffarsi nell’acqua, Iaconis  lo afferrò e ricominciò a percuoterlo e mentre con una mano lo costringeva per terra, con l’altra gli tirò un colpo alla testa, producendogli una ferita sanguinante. Il ragazzo allora tentò di difendersi prendendo un sasso ed il Iaconis si avventò contro di lui mettendogli una mano al collo e buttandolo a terra. io allora gli gridai di lasciarlo stare ma il ripetuto Iaconis gli tirò due colpi di scure e, visto che l’aveva finito, lo prese per una mano e lo buttò nel fiume. Alle mie esortazioni e prima di assestargli i due colpi di scure, il Iaconis mi rispose che era fatta e che oramai doveva finirlo. A tale vista io mi allontanai per andare a Spinello dove si celebrava la festività della Madonna della Scala e dove mi raggiunse Iaconis il quale mi obbligò con minaccia a tacere ogni cosa ed a stare insieme con lui.
– Proprio una bella storiella! Vedremo… vedremo – fa Filippone agitando l’indice davanti al naso di Rosario. Poi è la volta del compare:
Il giorno quindici corrente, era il giorno di Pasqua, – racconta – mi incontrai con il nominato Peppino, figlio della Bellella, che custodiva alcuni porci. Presi a scherzare con lo stesso e ad un certo punto l’obbligai anche a mettersi in ginocchio con le mani sotto le ginocchia mie. La mattina seguente, appena giunti all’ovile, il mio compagno Mangone si avvide che mancava una campana ad una delle vitelle custodite da lui. Verso le dieci scendemmo con gli animali al lido del fiume Lese. Dall’altra parte del fiume c’era Peppino con i porci, allora dissi io al Mangone di chiamarlo invitandolo a guadare il fiume con la promessa di regalargli un temperino mio. Peppino accettò l’invito, si spogliò e passò il fiume. Appena venuto vicino a noi richiese al Mangone il temperino, ma costui porse a me il temperino e disse che non poteva darglielo perché mio, anzi io soggiunsi: “Tu ài fatto male a credere che ti avrebbe dato il temperino perché è mio”. Allora il Mangone, che sospettava Peppino di avere rubato la campana, ne richiese allo stesso l’immediata restituzione. Il ragazzo negò di avere di avere preso la campana, al che il mio compagno cominciò a percuoterlo con schiaffi e pugni mentre io stavo tranquillo seduto vicino a loro, tenendo in mano un piccolo bastone che il Mangone aveva tolto a Peppino. Poi io buttai il bastone nel fiume e il ragazzo pretendeva che glielo andassi a prendere. Gli risposi che se lo voleva doveva andarselo a prendere da solo. Cercò il bastone ma non lo trovò e mentre insisteva per averlo, io gli diedi uno schiaffo e lo spinsi nel gorgo del fiume dal quale immediatamente uscì di nuovo alla riva dove ero io con Rosario. Continuava a chiedere il bastone e allora noi due lo ributtammo in acqua un altro paio di volte. Poi Mangone gli disse: “Peppino, se vuoi che ti lasciamo in pace devi andare a raccogliere le mie vacche”. Egli obbedì, essendo sempre ignudo, e ritornò con gli animali vicino a noi. Quando una delle vacche passò dall’altra parte del fiume, tutti e tre la seguimmo e Peppino andò vicino ai suoi vestiti dicendo che voleva rimetterseli addosso ma Rosario glielo impedì. Nel frattempo Peppino aveva perso il suo berretto e noi lo obbligammo ad andare a cercarlo ma oppose un reciso rifiuto. Dopo di che tanto io che il Mangone imponemmo al ragazzo di saltare nel fiume dalla grossa pietra sulla quale poggia uno dei capi della passerella perché solo così facendo l’avremmo dispensato dalla ricerca del berretto, ma anche a tanto non volle annuire ed allora tutti e due cominciammo a percuoterlo con le mani buttandolo anche per terra; egli tentava di rialzarsi raccogliendo sassi per scagliarli contro di noi, che continuavamo a percuoterlo ed il Mangone gli menò con un sasso sul muso dal quale cominciò a sgorgare del sangue. Il ragazzo tentò di rialzarsi ed il Mangone allora gli tirò nuovamente con un sasso alla testa. Peppino raccolse una pietra e la tirò contro Mangone ma colpì il mio piede. Per il dolore prodottomi mi avventai contro il ripetuto ragazzo che continuai a percuotere e quando vidi che tentava di alzarsi, presi la scure e, vedendo che con le mani non ero riuscito a finirlo, gli diedi col dorso della stessa un colpo sulla testa. Il Mangone allora mi disse di lasciarlo stare ed io gli risposi che ora mai era finito ed una volta che dovevo andare in galera, dovevo finirlo del tutto. Poi l’abbiamo buttato nel fiume…
– Bella storia, solo che io non ci credo che le cose siano andate così…
Il sospetto che i due abbiano ucciso Peppino per il rifiuto opposto a un tentativo di violenza o, forse, dopo averlo violentato così come pensano in tanti, ormai prende corpo specialmente dopo le contraddizioni in cui gli indagati sono caduti e per la futilità dei motivi addotti da Giovanni e Rosario.
E i sospetti che si sia trattato di un fatto orrendo si rafforzano quando Mariangela Torcasso, Bellella, la madre del povero ragazzo, racconta al Pretore di Savelli:
Sono convinta che il movente del delitto è stato il desiderio dei due uccisori di volere sfogare la loro libidine sul corpo del mio povero figlio. Dico ciò perché il Iaconis e il Montalto non ignoravano un fatto, avvenuto circa cinque anni fa, di violenza carnale contro natura commesso su mio figlio ad opera di tali Frontera Giuseppe e Tallarico Francesco da Savelli, l’ultimo dei quali si trova per tale fatto ancora in espiazione di pena a Catanzaro. Da allora, sventuratamente, a mio figlio rimase la nomea di pederasta e quindi tutti, specialmente in Casino, lo oltraggiavano chiamandolo “culista”. Il Iaconis ed il Mangone, inoltre, tre o quattro giorni prima del delitto si erano divertiti a maltrattare mio figlio e solevano insultare mio figlio chiamandolo “culo cavato”. La scusa del preteso furto della campana non regge perché lo stesso proprietario degli animali custoditi dai due uccisori mi ha dichiarato che nessun animale fu trovato privo della campana. Evidentemente i due uccisori, profittando della solitudine del giorno di Pasqua, cercarono di indurre mio figlio a piegarsi ai loro desideri immondi e visto vano ogni tentativo al riguardo, prima lo uccisero e poi si congiunsero carnalmente con lui.
Un’accusa di gravità inaudita che, comunque, è ritenuta credibile per il Brigadiere Filippone dopo che li interroga nuovamente con metodi alquanto spicci, prima che i due siano trasferiti nel carcere di Catanzaro:
– Allora, è vera questa storia che volevate violentarlo e al suo rifiuto prima lo avete ammazzato e poi gli avete fatto il servizio?
– No… – risponde titubante Iaconis.
– Devi dirmi la verità perlamadonna! – gli urla in faccia mollandogli un manrovescio sul viso – è vero? dimmi la verità se no…
– Si… è così…
La stessa identica scena si ripete con Mangone.
Tale circostanza fu affermata spontaneamente dai due uccisori . Fu anzi il Iaconis che per primo mi confessò tale fatto, subito dopo però anche il Mangone mi confessò di essersi congiunto carnalmente col Torcasso. Nego poi in modo reciso di avere costretto con maltrattamenti i due giudicabili a confessare la congiunzione carnale. La confessione, invece, da parte loro fu frutto delle contestazioni loro mosse, l’uno separatamente dall’altro. Secondo le loro affermazioni sarebbe stato prima il Iaconis a congiungersi col Torcasso ed indi il Mangone. Sono anzi disposto a mettermi a confronto coi due giudicabili i quali, alla mia presenza non potranno certamente affermare di avere subito maltrattamenti in caserma e non potranno negare la circostanza da loro spontaneamente dichiarata – afferma Filippone al Pretore che lo ha chiamato a deporre dopo le proteste degli avvocati difensori.
Fu prima il Iaconis a confessare di essersi congiunto carnalmente col Torcasso dopo che questi era caduto a terra tramortito. Il Brigadiere Filippone contestò al Iaconis tale fatto dicendogli che era stato il Mangone ad accusarlo ed allora il Iaconis confessò ma aggiunse che anche il Mangone aveva fatto lo stesso. A sua volta il Mangone, separatamente interrogato, finì per confessare tale circostanza. Escludo che ai due giudicabili sia stata usata violenza o minaccia per confessare ogni cosa – conferma il Carabiniere Cosimo Lorusso.
Il giudizio dei periti incaricati dell’autopsia, dopo avere accertato i segni caratteristici della penetrazione anale pregressa, è possibilista e non esclude la probabile barbarie:
La mancanza di tracce di violenza nell’orifizio e nei suoi pressi, fa escludere la pederastia passiva recente a corpo vivo. La mancanza di sperma nell’ano non può essere presa in considerazione per il fatto che il tempo e l’immersione nell’acqua lo hanno potuto fare sparire. D’altra parte, non c’è certezza che ad uccidere siano stati i colpi sulla testa, più probabile, secondo i periti, che la morte sia stata una combinazione tra i colpi alla testa e l’acqua penetrata nei polmoni quando ancora Peppino respirava.
La Procura del re di Catanzaro è convinta che i due rei confessi abbiano tentato di violentare Peppino. Non essendoci riusciti per la strenua resistenza del ragazzo l’hanno colpito per ucciderlo al fine di evitare la sicura denuncia e quindi violentato quando probabilmente respirava ancora. Solo dopo ne gettarono il corpo nel fiume.
La Sezione d’Accusa non è del tutto d’accordo con questa tesi accusatoria e sposta la violenza, contrariamente a quanto accertato dall’autopsia, ad un momento precedente l’omicidio. Nonostante tutto, però, le parole usate sono ancora ambigue. Giovanni Iaconis e Rosario Mangone vengono rinviati a giudizio per avere nel 15 aprile 1922 in agro di Casino, in correità fra loro, a fine di uccidere, inferto colpi di scure e di pietra alla testa e spina dorsale al ragazzo Torcasso Giuseppe e per averlo poi precipitato nelle acque del fiume Lese per occultare le prove della violenza carnale consumata contro natura (quando? Prima o dopo averlo brutalmente colpito?), determinandone così la morte.
È il 23 settembre 1922. Rosario Mangone non arriverà a sedersi sul banco degli imputati della Corte d’Assise di Cosenza, dove nel frattempo è stato spostato il dibattimento, perché il 6 maggio 1924 muore nel carcere di Catanzaro. Giovanni Iaconis, invece, il 22 luglio successivo viene condannato a 13 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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