LA NOBILE DECADUTA

Flavia Grandinetti nasce a Napoli il 31 dicembre 1901, unica figlia di una nobile e antica famiglia di Castrovillari. La sua vita comincia nel lusso, attorniata dalla più alta aristocrazia della città del Pollino e la famiglia mena vanto di una visita ricevuta da Margherita di Savoia. Poi, nel 1916, l’adolescente Flavia scopre per caso che suo padre, il suo adorato padre, ha una relazione con una delle signore che frequentano abitualmente le feste date in casa sua. E la tresca nasce e si consuma proprio tra quelle mura che portano il suo nome:
Villaflavia, Giugno 1916 In uno splendido mattino di sole, vidi ad un tratto una strana visitatrice aggirarsi per i viali del mio giardino. 
Come mai, invece di andarle incontro, fui costretta a fermarmi semicelata dalle piante? Vedevo quella tale gesticolare, affettando atteggiamenti da gran dama e benché nel parlare si sforzasse a strisciare la erre e la esse, notai che la conversazione languiva e mio Padre andò a sedersi all’ombra, su di uno dei bei sedili.
Intanto vedevo la visitatrice dimenarsi nel camminare lungo i miei viali, per il mio giardino,  mentre io intuivo come un bisogno di difenderlo da qualche cosa che lo contaminasse! Ad un tratto osservai che quella smilza olivastra che appariva come sofferente, poggiava su mio Padre dei lunghi sguardi insistenti. Perché dovetti aggrapparmi al fermo che formava l’arco carico di glicine, per non cedere al bisogno di correre ad abbracciare mio Padre, sospinta a ciò da una strana sensazione che mi faceva sentire l’urgenza di scansare mio Padre da un grave pericolo? Perché dovetti tapparmi la bocca per non gridare «Papà difenditi, costei è una nemica?!». Tacqui, mentre gli occhi si riempivano di paura nel vedere una mano posarsi sui miei fiori, lenta e strisciante come la minaccia, come la maledizione!
Dopo poco tempo Ernesto Grandinetti, allontanate da casa moglie e figlia, comincia a farsi trascinare in una serie di investimenti sbagliati che fanno scricchiolare la sicurezza economica del casato. Flavia e la madre sono mandate a vivere prima in una casa a Castrovillari e poi a Napoli, in perfetta solitudine. È qui che conosce il barone Girolamo Salituri, anch’egli di Castrovillari e i due giovani si innamorano e si sposano.
Napoli 1921 
Lo conobbi in casa Toscano, una sera mentre mi intrattenevo con Maria Toscano (la sorella del Marchese Gallo di Castrovillari). Notai subito su quel volto uno sguardo triste ed un sorriso amaro che mi colpì, dandomi un acuto senso di pena che mi costrinse a pensare: “Questo giovane soffre”. «Ti presento mio nipote», mi disse Maria Toscano ed io, al giovane che s’inchinava signorilmente, non potetti fare a meno di tendere, pronta ed aperta, la mano. Divenimmo all’istante vecchi amici. Cioè, io sentii che acquistavo un obbligo, un dovere di prestarmi all’evidente bisogno che provava il giovane di parlare con me e dare così sfogo alla sua pena. Da allora mi cercò, come un assetato cerca la fonte d’acqua fresca e pura, perché aveva bisogno di parlare con me. Io raccolsi quella giovane esistenza perché la morsa della rinuncia non la tormentasse ed egli mi chiamò Samaritana. E tutto sarebbe finito lì, in una pura, bellissima amicizia che faceva di noi due camerati, due commilitoni. Un giorno gli dissi: «Per il tuo cuore è meglio rivederla che troncare ad un tratto». Rintracciammo la piccola Laura ed egli ebbe ancora ore di felicità.
Poi la tormenta dei nostri destini stroncati riprese a fischiare tra i rami dei nostri giorni tristi e ci ritrovammo sempre pronti a tenderci la mano, a pararci i colpi l’un con l’altro e la nostra unione fu santa, sublime, reale per l’esistenza di un fiore sbocciato fra noi.
Girolamo Salituri, erede universale dei beni di famiglia in quanto primogenito, fa il medico. Prima nell’Esercito e poi da privato in Lombardia, dove si trasferisce anche Flavia con la loro bambina appena nata, Letizia, che sarà la loro prima e unica figlia perché il barone muore improvvisamente.
La vedova e la bambina tornano a Castrovillari per gestire il patrimonio che hanno ereditato, ma cominciano altri guai.
L’invidia, i complotti familiari per cercare di portarle via ciò che le spettava. Flavia, sua madre e la bambina cercano di cavarsela e resistono come possono ma l’inesperienza gioca brutti scherzi. Quando Letizia, la figlia, è ancora adolescente conosce l’avvocato Mollica di Reggio Calabria che la mette incinta e i due si sposano, ma il genero con uno stratagemma legale estorce quasi tutto il patrimonio di Flavia. E poi, per accettare di tenere in casa l’anziana madre di Flavia, donna Luisa Forte, la convince a rinunciare all’usufrutto sul patrimonio e così non le restano che poche briciole. Ma il genero non la sopporta, non la vuole in casa e, con un pretesto, la allontana Flavia con la madre e le due donne tornano a Castrovillari. Qui incontra un uomo di poco più giovane di lei, Giuseppe Zicari, impiegato all’Archivio Notarile della città del Pollino. Giuseppe, di famiglia modesta, si offre di darle una mano a tutelare i suoi interessi e i due entrano sempre più in confidenza, fino a convivere, contro la volontà dei genitori di Flavia che non sopportano l’idea che una Grandinetti sposi uno spiantato.
Quando Flavia rimane incinta i due si sposano, nel gennaio del 1939, e dopo poco nasce Biagio[1] ma la madre non ha latte e deve darlo a balia.
E così di periglio in periglio, giunsi al secondo matrimonio, sempre in cerca di quella protezione che tremavo per vederla mancare. Vana speranza: come nei tempi delle stregonerie, si riuscì a turbare la mente ad un uomo buono, ma che a giudicarlo dal suo agire, bisognerebbe crederlo almeno assai crudele, perché lo si fece agire contrariamente a come avrebbe dovuto e contro il suo vero sentire.
Giuseppe e Flavia cominciano a litigare per ogni nonnulla perché, secondo Giuseppe, la moglie ha un carattere intollerante e bisbetico e lo tratta con modi bruschi come se fosse un dipendente e non il marito, anche alla presenza di donna Luisa con la quale Giuseppe non va d’accordo perché si dimostra molesta, girando di notte nell’unica stanza da letto della loro casa per cercare di rubare qualche spicciolo dal portafogli del genero. Secondo Flavia, al contrario, la causa delle liti è da ricercare nell’ostilità della madre di Giuseppe nei suoi confronti. Nel 1940 Giuseppe si ammala gravemente di cuore e si rende necessario un intervento chirurgico. Ci vogliono molti soldi. Flavia non esita un attimo e vende quasi tutto il poco che è riuscita a salvare dalle grinfie del genero. Giuseppe subisce due interventi chirurgici, il primo a Roma e il secondo a Napoli e si salva. Si salva anche la sua posizione economica perché il suocero interviene e gli fa avere una promozione con un sostanzioso aumento di stipendio.
Dopo tre anni Giuseppe e Flavia si separano ma vengono convinti a rimettersi insieme da un loro comune amico e Giuseppe ottiene dal direttore del suo ufficio anche di poter occupare un piccolo quartino adiacente all’ufficio. Ma dura poco. Nel 1944, i due si separano definitivamente e lei si trasferisce col bambino a Cosenza dove, con enormi sforzi, apre una pensione:
Quando vidi la casa che presi a Cosenza era molto colpita dai bombardamenti. Priva di tetto, alcuni pezzi di muri indicavano che essi erano serviti a formare delle stanze. Il pavimento era formato da mucchi di terriccio. «Eppure» mi disse Mastro Pietro «in capo un mesetto vi approntisco l’appartamento», e l’affare fu deciso. Mi costò i miei ultimi risparmi, un caro ricordo che dovetti vendere e lotte e sacrifici che a narrarli sembrano favole. Al mattino Mastro Pietro mi trovò fra i ruderi, dove avevo pernottato per utilizzare per i miei quel denaro che dovevo spendere in alloggio e per non rimanere in albergo sola. Mastro Pietro mi salutò, osservò e tacque. Però a mezzogiorno si assentò e lo vidi tornare col figlio che portava un bel materasso. Così, quella notte, fra me e il terriccio e i sassi ci fu la gentilezza, la signorilità di un cuore che si rivelava nobile ed umano. Il cuore di un operaio che aveva sentito il bisogno di impedire che passassi un’altra notte per terra. che ristoro fu per me quel materasso, in quelle notti che passai guardando il luccichio dei misteriosi mondi che chiamiamo stelle. Ogni tanto, nel buio, mi passava addosso qualche cosa. Compresi che erano topi.
Flavia, aprendo la pensione, spera di convincere Giuseppe a trasferirsi in città e a riprendere la vita in comune, ma è costretta a chiuderla quasi subito, data la sua inesperienza e la sua insofferenza caratteriale. A questo punto, priva ormai di ogni mezzo finanziario, affida il bambino al padre e accetta un modestissimo assegno di mantenimento di 800 lire mensili. Giuseppe, dal canto suo, per accudire al piccolo Biagio assume una certa Lucia Esposito, anch’essa separata, e ben presto i due diventano amanti e cominciano a convivere more uxorio.
Flavia riesce a convincere la figlia e il genero a riprendere in casa lei e sua madre e le due donne tornano a Reggio Calabria. Anche questa volta va male e viene cacciata di casa.
È a questo punto che tenta una riconciliazione col padre:
Un giorno mi sentii stremata. L’istinto mi fece invocare l’aiuto del Papà e mi piegai anche al passo estremo! Quando fui innanzi a quella porta una voce mi disse: «Devi morire prima di toccarla», ma in quello istante vidi la testa canuta di mia Madre, vidi due fanciulli che sorrisero dicendomi «Mamma, ti aspettiamo» e la mano bussò. Non dovevo morire!
Ernesto Grandinetti convive sempre con la smilza olivastra che gli ha dato anche due figli e lo domina come sempre. Questa donna fa di tutto per impedire che Flavia resti col padre e dopo sei mesi riesce a fare in modo di mandarla via.
Mio Padre è molto ammalato di cuore. L’aria gli manca, dandogli di continuo la sensazione angosciosa della sofferenza, la paura della morta che vede sempre pronta a ghermirlo. Eppure, quel giorno, mio Padre volle recarsi personalmente e con me al Ministero, nell’ansia di volermi aiutare a sistemarmi. Come affannava per quelle scale, come soffriva! 
Tutti lo salutavano, l’ossequiavano riverenti. A me, salendo quelle scale con mio Padre che si appoggiava al mio braccio, sembrava di volare, di essere portata in alto, lontano, in un regno incantato dove prestigio, rispetto e decoro mi sollevavano da ogni miseria e mi riportavano in quell’impero dal quale il fato mi ha separata condannandomi all’esilio.
Flavia torna a Reggio Calabria dalla figlia ma i contrasti col genero sono continui e violenti e dopo appena otto giorni è costretta di nuovo ad andarsene. Cominciano gli stenti. Il poco che ha non le basta ed è costretta, pur di restare accanto alla madre e alla figlia, a lavorare, scendendo sempre più in basso nella scala sociale, fino ad arrivare a fare la lavandaia.
Mi rivedo con Morea Santa, laggiù nel sottoscala a lavare panni, d’inverno, nell’acqua gelida. L’umidità ed il freddo di quel tetro locale facevano ghiacciare l’acqua alle pareti, eppure Santa ed io ridevamo ed eravamo contente, anzi felici, perché a mezzo di quel lavoro vedevamo realizzare il sogno, ragione e vita delle nostre esistenze: riunire un po’ di denaro per comprare qualche cosa ed inviare il pacchetto e poi… felicità infinita… prendere il treno e correre a riabbracciare la famiglia!
Il genero, nel tentativo di togliersela definitivamente di torno, l’accusa di aver rubato alcuni gioielli alla figlia Letizia e la denuncia e lei torna a Roma per lavorare come cameriera in una agiata famiglia. La convivente del padre, saputo che Flavia è tornata a Roma e che è stata denunciata, comincia a tempestare di telefonate la padrona di casa dicendole che ha in casa una ladra ricercata dalla Questura e così, dopo poco, è costretta a lasciare l’impiego e trova rifugio per qualche mese nell’Istituto “Il Focolare”, nei pressi di Piazza Cavour. Parla col marito chiedendogli di trovarle una sistemazione a Castrovillari:
Di quel che fai, non a me devi dar conto, ma a Dio. Io non giudico né incolpo, io non so niente. A me basta sapere che stai bene. Se non fosse così proverei grande dolore. Quello che non posso permettere è la lontananza di mio figlio da me. La mamma, finché è in vita, nessuno deve e può supplirla. Pensaci, trovami un rifugio qualunque, ma io debbo avvicinarmi a mio figlio.
Non ti fare venire in mente di recarti da queste parti!
Le cose vanno sempre peggio e Flavia pensa molto seriamente alla possibilità di suicidarsi. Ha un libretto di risparmio dove ha conservato settemila lire, ne spende quattromila per comprare una rivoltella e farsi insegnare come si usa. Poi forse ha un ripensamento.
La sera del 14 gennaio 1949 parte per Castrovillari con lo scopo di tentare, per l’ultima volta, di trovare un accordo col marito che le consenta di restare accanto al figlio. È, d’altra parte, cosciente che sarà difficile riuscire nell’impresa, per cui sa perfettamente che in caso di fallimento quella sarà l’ultima volta che vedrà e abbraccerà il figlio perché si ucciderà.
Arriva a Castrovillari due giorni dopo e trova accoglienza presso una famiglia amica ma è costretta a trovarsi un’altra sistemazione per la partenza dei suoi amici. Girovaga nei dintorni, da una pensione all’altra, in attesa di poter parlare col marito che le si nega continuamente. Si nasconde ogni giorno nei pressi della scuola del figlio per vederlo. Va a parlare con un avvocato al quale affida l’incarico di procedere giudizialmente per ottenere l’annullamento della separazione. L’avvocato si rende perfettamente conto dello stato di profondo disagio psicologico di Flavia e parla col marito, il quale si offre di aumentare l’assegno di mantenimento da ottocento a tremila lire al mese ma, per carità, si togliesse di torno perché di lei non vuole più sentir parlare.
Flavia, a questo punto, decide di farla finita e scrive alla figlia una lettera che non spedirà mai:
Figlia cara,
il modo di fare di tuo marito riesce a sconvolgere la mia mente per cui, presa dal terrore che egli vi fa soffrire da quando sei sposata, non ho più pace e per seguirti mi sono disgustata mio marito per cui la mia vita non è più sopportabile, senza famiglia e priva di mio figlio.
Come tu sai, la mia vita è stata un continuo martirio e tutti i patimenti mi sono accollata per amore di voi tutti, compreso tuo Padre e tua nonna ti può raccontare qualche cosa.
Ti lascio, ripetendoti queste parole: fai vincolare la casa in modo che anche se tu volessi venderla, non lo puoi. Sappiti guardare la tua strada. Il mio dolore è il modo come ho trovato nonna e non so come il tuo cuore può tollerare. Ti lascio questa missione, spero che comprenderai il tuo dovere di assistere nonna e non privarla di tutto in questi suoi ultimi giorni. Falle sempre tenere qualche cosa di soldi perché ha bisogno sempre di comprarsi qualche cosa.
Falle venire la sua roba da Reggio. Provvedila di calze, di biancheria e tutto ciò che le serve. La signora Gatto, alla casa a Reggio, tiene due mie valigie, te le farai dare ed userai tutta la roba per nonna. Da Menniti riceverai della roba e ti dico di darla a Nonna integralmente. Quando nonna dovesse morire, avvertine Menniti perché forse ti toccheranno degli oggetti.
Mantieni la pulizia a nonna. Mettila in condizione di potersi cambiare spesso. Falle pulire i suoi recipienti anche con cenere bollita e asciutta, strofinando con carta.
Intendo togliere il fermo all’anello che spero non venderai e quando lo metti pensa a mamma tua. Ti raccomando Nonna.
Lascio anche a Nonna la cassa piena che tiene il signor Monaco Angelo, Corso Mazzini 159- Cosenza. anche a Nonna lascio la cappelliera ed il suo contenuto che sta presso il barbiere che sta nella piazza della Stazione in Cosenza. detta roba dovrà adoperarla tutta mia madre finché vive.
Figlia cara, io ho sistemato tutti e mai ho pensato a me. Ora tutti mi avete abbandonato e mi costringete al passo estremo.
Io vi perdono e pregherò per voi.
Lascia una lettera anche al marito:
In niente ti ho mancato. Un insieme di circostanze ti hanno fatto accanire contro di me. Sia fatta la volontà di Dio!
Solo per assolvere il mio dovere verso mia figlia ti ho forse qualche volta trascurato. Sono affranta, ammalata, in questo stato di cose non posso più vivere.
Se non ti è possibile lasciarmi in un canto della tua casa, dove vivrei da ospite, lasciandoti tranquillo e libero di vivere come vuoi e con chi vuoi, purchè veda soltanto mio figlio, mi costringi a farla finita. Decidi! Ti raccomando mio figlio!
E, come in preda a un delirio, scrive anche quelle che considera le sue ultime volontà:
Ordino al Tribunale disporre in modo affinché mio figlio Biagio sia subito tolto alla tutela del padre e vada a stare con lo zio Alberto, fratello del padre.
Ordino che assolutamente non si faccia avere a mio figlio il minimo contatto con la donna che attualmente convive con mio marito e con la sua figliuola Maria.
Lascio ogni benedizione per tutti coloro che avranno cura di mio figlio e confido sullo zio Alberto perché vegli principalmente sulla sua salute, non facendogli mancare cure energiche ed assidue a base di vitamine e durante l’estate farlo andare in località salubre di campagna, secondo la prescrizione del medico.
Lascio al mio adorato figlio Biagio lire quarantamila in buoni fruttiferi, che desidero che le riscuota alla sua maggiore età, se ne ha bisogno, altrimenti li potrà riscuotere allo scadere dei venti anni dalla data in cui sono stati fatti i buoni. Vorrei che tale denaro lo impiegasse per dare l’anticipo per comprarsi la casa, col volere di Dio.
Desidero che tutto ciò che possiede mio marito di mio, sia messo in deposito e conservato a mio figlio o adoperato solo da lui. Si tratta di mobili, argenteria ed oggetti vari.
La mattina del 22 gennaio 1949, prima di mettere in atto il suo proposito, Flavia aspetta il marito per strada, lo vede entrare in una sartoria, lo segue e lo affronta:
– Peppino, ti prego, ascoltami.
– Lascia stare… c’è gente… e poi non ho intenzione di sentire niente di ciò che vuoi dirmi.
– Peppino, trovami una sistemazione qui… voglio stare vicino a nostro figlio… posso dormire anche per terra a casa tua, non mi interessa se c’è anche lei in casa, basta che stia vicina a Biagio nostro…
– Soldi per pagarti una casa non ne ho, per darti qualcosa vuol dire che toglierò il latte e la frutta a tuo figlio e di stare nella stessa casa con te non se ne parla nemmeno! Puoi andare a stare da tua figlia… perché non vai da lei? Adesso vattene che è vergogna…
– Lo sai che da mia figlia non posso andare… sii buono… fammi restare a casa tua… ti prego…
Giuseppe, spazientito, la lascia lì e se ne va per tornare in ufficio. Flavia lo segue, Giuseppe si nasconde nella bottega di uno stagnino. Flavia lo sopravanza ed entra nell’androne dove ci sono l’ufficio e l’abitazione dell’ex marito.
Giuseppe corre in tribunale a cercare il suo avvocato perché si adoperi per farla diffidare dall’avvicinarsi a casa sua, ma non ha bisogno di arrivare al tribunale perché incontra l’avvocato per strada. Gli spiega la situazione e l’avvocato decide di fare un tentativo senza far intervenire la forza pubblica. I due si lasciano e mentre Giuseppe entra in un negozio per aspettare, non visto, l’esito della missione, l’avvocato entra nell’androne del palazzo.
Flavia, intanto, ha salito le scale ed è davanti alla porta di Giuseppe dove trova Lucia Esposito la quale, non appena la vede, le lancia uno sguardo pieno di odio.
– E’ in casa mio marito?
Iatevinne, chi facite cca? In casa non c’è nessuno.
– Voi siete donna, potete capirmi… io voglio dirgli solo che mi facesse restare vicino a mio figlio, non m’importa quello che c’è tra di voi… non mandatemi via, vi supplico… aiutatemi a farmi stare col mio bambino…
Iatevinne! – le dice spingendola e facendola retrocedere sulle scale.
– Mi costringete a morire…
E che ne voglio fa? Iatevinne… iatevinne… non ci pensate a vostro figlio che sta molto bene senza di voi! Suo padre gli ha comprato l’olio di fegato di merluzzo, sta benissimo!
– Datemi mio figlio, vi prego, non mi costringete a morire… a lasciarlo…
Lucia Esposito lascia Flavia e scende velocemente le scale mentre un ragazzo le sta salendo. I due si fermano a parlottare. La mano di Flavia accarezza la rivoltella nella tasca del cappotto. Poi Lucia, terminata la conversazione si gira e vede Flavia ancora lì, risale alcuni gradini, l’afferra e la spinge giù verso l’uscita.
Iatevinne!
Flavia resiste, vorrebbe gridare ma la voce le si strozza in gola all’ennesimo Iatevinne. Si sente mancare mentre
estrae la rivoltella per puntarsela al petto.
– Si, me ne vado, ma me ne vado per sempre!
Lucia Esposito, appena vede la rivoltella viene presa dal panico, forse pensa che Flavia la voglia uccidere e si mette a correre verso l’uscita.
A Flavia viene l’idea che forse può sfruttare la paura di Lucia minacciandola di morte per farsi aprire la porta di casa e piazzarsi lì in attesa del ritorno di Giuseppe per cercare, ancora una volta, di convincerlo. Adesso deve solo riuscire a far tornare indietro la donna e farsi aprire la porta.
In quel preciso momento, però, l’avvocato di Giuseppe varca la soglia del portone. Flavia lo vede. Ha un forte risentimento nei suoi confronti perché ritiene che sia opera sua la decisione del marito di chiedere la separazione. L’avvocato vede Lucia che scappa e Flavia che le è dietro, sconvolta e con la rivoltella in pugno. Rimane fermo in preda alla paura, con gli occhi fuori dalle orbite. Basterebbe poco per fermare Flavia e disarmarla, ma l’avvocato è letteralmente paralizzato, appiattito contro un muro, aspettando solo di ricevere una revolverata fatale. In questo frattempo Lucia si è fermata. Vede nella presenza dell’avvocato la sua salvezza e guarda ora l’una, ora l’altro.
Flavia adesso è incerta sul da farsi: l’avvocato ha visto la rivoltella e se lei risalisse le scale, lui certamente andrebbe dai carabinieri e tutto sarebbe perso. Fermare la donna, prenderla in ostaggio e farsi aprire la casa. Questa è l’unica soluzione possibile. Il suo braccio armato si dirige verso la donna per intimarle di risalire le scale, ma Lucia con uno scatto felino esce in strada e si mette a correre. Flavia le corre dietro sparando, convinta di farla fermare, ma Lucia corre da un capo all’altro della piazza, terrorizzata dai colpi che risuonano alle sue spalle. Poi, all’improvviso, si ferma davanti alla bottega dello stagnino e fa per entrare. Flavia la raggiunge. Entrambe hanno il fiatone e non riescono a parlare. Che fare? Lucia è davanti a lei, facile bersaglio. Che fare? Non posso morire abbandonando per sempre mio figlio in balìa del sangue estraneo che, anche senza volere, gli avrebbe tolto l’affetto e la protezione del padre, lasciandolo a quella donna, senza di me, senza la sua mamma. Adesso non avrai che il tuo babbo ad amarti e proteggerti
Il braccio armato di Flavia si protende verso Lucia che, ormai rassegnata al suo destino, chiude gli occhi. I tre colpi che sono rimasti nel caricatore partono in rapida successione e si conficcano uno accanto all’altro nella tempia destra della povera donna che cade morta senza un lamento.
Flavia rimette in tasca la rivoltella e si allontana come se niente fosse, dirigendosi verso la pensione dove è alloggiata, mentre su Corso Garibaldi scoppia il panico.
I carabinieri la vanno a prendere e, una volta in caserma, le danno da firmare un foglio scritto a macchina ma lei si rifiuta di firmare.
Giammai farò questo. Se si tratta degli  estranei, se la vedano con la loro coscienza del male che fanno. Se si tratta di mio marito, dico e sostengo che non è colpevole e lo proverò.
Sentendo questo bisogno di spiegarmi bene, chiesi al Magistrato il permesso di scrivere e lui mi rispose che mi sarebbe stato accordato e che avevo il diritto di difendermi. Disse proprio così.
Flavia scrive un primo memoriale di ottantaquattro pagine dove ripercorre la sua vita e le sue disgrazie. Scriverà, a più riprese altre quarantasei pagine in vari memoriali.
Ma ciò che scrive le si ritorce contro. Il Magistrato nota segni di squilibrio mentale e chiede che sia sottoposta a perizia psichiatrica. Il 13 maggio 1949 Flavia varca la porta del manicomio giudiziario di Aversa. L’osservazione dura circa sette mesi e, alla fine, il medico alienista Giulio Freda trae le sue conclusioni:
Nel caso nostro saremmo al cospetto di una sindrome esaltata espressa in uno stato confusionale, forse preceduto e seguito da altri elementi che possono essere sfuggiti alla nostra osservazione e che poi, a distanza di tempo, si è avvicendata con la sindrome depressiva che ancora perdura: l’una e l’altra chiudono un ciclo che riposa sul ricettacolo della degenerazione. Dietro il ciclo c’è l’anomalia costituzionale incardinata sul binomio emotività-debolezza volitiva, nel quale è circoscritta tutta la personalità della nostra donna. Una personalità, come si vede, la quale quando è fuori delle crisi psicopatiche ricorrenti, sta salda sulle frontiere delle malattie e non se ne distacca mai per toccare la vetta della sanità da essa sconosciuta; una personalità la quale, nelle più favorevoli delle sue variabili condizioni, realizza sempre uno stato intermedio tra la normalità e la malattia con maggiore accostamento a quest’ultima che alla prima; una personalità che, nella mattina del delitto spostò evidentemente il suo indice segnalatore dei propri poteri verso l’asse della malattia, pur senza toccarne il polo.
Rispondiamo perciò al quesito propostoci con le seguenti
CONCLUSIONI
  1. Grandinetti Flavia, “ab origine” una debole della volontà, incarna la figura di un’anomala con costituzione emotiva che la rende incline a ricorrenti stati psicopatici di natura distimica.
  2. 2)                    All’epoca del commesso reato ella trovavasi, per infermità di mente, in tale stato da scemare grandemente la imputabilità senza escluderla.
  3. 3)                   La Grandinetti attualmente è persona socialmente pericolosa
E siccome il perito ritiene che Flavia sia imputabile, viene istruito il processo. Ma lei non ci sta a passare per pazza. Nella sua visione delle cose, il riconoscimento di malata di mente sarebbe un disastro per lei e la sua famiglia: per lei perché le toglierebbe la possibilità di esporre tutte le vicende della sua vita, con i relativi richiami: persone e ambienti che l’hanno circuita, forzata, obbligata a compiere le azioni che l’hanno fatta precipitare nell’abisso; per la famiglia perché, eliminata per lei ogni possibilità di avere voce in capitolo, chi consiglierebbe e dirigerebbe i suoi familiari, dato che solo lei, ora, è in grado di dare un sano indirizzo alla vita dei suoi cari?
Viene deciso che il processo si terrà presso la Corte d’Assise di Cosenza e il dibattimento è una guerra di tutti contro tutti. Viene tirata fuori anche una vecchia storia di alcuni conti dell’Archivio Notarile che non tornavano, si accerta che Giuseppe si è appropriato indebitamente di qualche decina di migliaia di lire e in un processo a parte viene condannato a un anno, sei mesi e venticinque giorni di reclusione, a 3.500 Lire di multa e all’interdizione dai pubblici uffici per un anno.
Flavia si limita a ripercorrere le fasi dell’omicidio e non tira in ballo nessun nome che potrebbe fare scalpore. La buona società di Castrovillari può tirare un sospiro di sollievo.
Finalmente, l’otto agosto 1951 viene emessa la sentenza: colpevole di omicidio volontario, porto abusivo di pistola e omessa denuncia dell’arma. Con le attenuanti del vizio parziale di mente, dello stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui e delle attenuanti generiche per il solo reato di omicidio, la pena viene quantificata in otto anni e sei mesi di reclusione, 20.000 lire di muta, 5.000 lire di ammenda, interdizione perpetua dai pubblici uffici, libertà vigilata per un anno, pagamento delle spese processuali e del mantenimento in carcere durante la carcerazione preventiva. Nello stesso tempo la Corte, applicando una legge del 1948, le condona tre anni della pena detentiva e l’intera pena pecuniaria.
Il difensore di Flavia, Baldo Pisani, ricorre in Appello e, il 22 maggio 1953, la sentenza viene parzialmente riformata. La pena detentiva scende a sei anni e cinque mesi ma, al posto della libertà vigilata, viene disposto, una volta scontata la detenzione, il ricovero di Flavia in una casa di cura e di custodia per un periodo non inferiore a tre anni.
Qualche mese dopo, la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Flavia.[2]

 

I CAMINANTI – Quando gli zingari rubavano galline

[1] Il nome è di fantasia, NdA.
[2] ASCS, Processi Penali.

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