Giuseppe Musolino nasce nel 1876 a Santo Stefano di Aspromonte e fa il falegname. Il Certificato di Penalità rilasciato dal Tribunale di Reggio Calabria narra che la prima volta che ha a che fare con la giustizia è per maltrattamenti e minaccia con arma, ma viene assolto per insufficienza di indizi. Poi una serie di condanne per lesioni volontarie, fino ad arrivare al 27 settembre 1898 quando viene condannato a 21 anni, 2 mesi e 15 giorni di reclusione per mancato omicidio premeditato, complicità in mancato omicidio e lesioni lievissime. Per questo reato si protesta, energicamente, innocente (ed è effettivamente innocente, come si scoprirà solo nel 1933 quando il vero autore del tentato omicidio, Giuseppe Travia, emigrato frettolosamente in America dopo il fatto, confessa scagionandolo). Mentre lo portano in carcere giura, se fosse sopravvissuto o se fosse riuscito a evadere, di vendicarsi. Ed evade veramente dal carcere di Gerace il 9 gennaio 1899, dandosi alla macchia. Comincia, così, a mettere in atto il terribile programma di vendetta che lo porterà a compiere, tenendo conto solo dei principali delitti, almeno sette omicidi e otto mancati omicidi.
Peppe va da un lato all’altro dell’Aspromonte. I boschi, le caverne e le case di tanti amici e parenti che gli offrono il loro letto ed un piatto caldo sono i suoi rifugi sicuri.
Su di lui viene posta una taglia di 5.000 lire, ma Musolino riesce sempre a sfuggire ai continui tentativi di cattura e ogni giorno che passa aumenta la sua fama di imprendibile giustiziere. La gente calabrese sta con lui e nell’immaginario collettivo diventa il simbolo dei torti subiti dalla Calabria, l’eroe che sfida lo Stato incapace di rendere giustizia per i torti subiti.
Ormai la sua fama ha raggiunto ogni angolo del regno e valica le Alpi: di lui parlano anche The Times a Londra e Le Figaro a Parigi.
Ma Peppe è stanco. Fughe precipitose, pedinamenti, agguati e le angherie che i suoi familiari e gli amici sono costretti a subire dalla Legge con frequenti perquisizioni e interrogatori, lo fiaccano e gli consigliano che è tempo di smetterla, così decide di lasciare l’Aspromonte per andare a chiedere la grazia al nuovo re, Vittorio Emanuele III, e si mette in cammino a piedi verso Roma. È l’estate del 1901.
Così vuole il mito che gli è stato cucito addosso su misura.
Sono circa le dieci di mattina del 12 settembre 1901. Francesco Lupinacci, cinquantaduenne contadino di Luzzi, sta andando a Rose per sbrigare una pratica alla Ricevitoria del Registro e Bolli quando, in contrada Serra dei Quarti, gli si avvicina uno sconosciuto che sembra avere una trentina di anni, di statura regolare, magro, dal viso un po’ scavato di colore olivastro, naso aquilino, piccoli baffi e barba ispida. Lo sconosciuto ha indosso dei pantaloni di tela bianchi, giacca e gilet scuri alla cacciatora, mantello nero corto, alla bersagliera, sulle spalle, un cappello chiaro a falde larghe e scarponi allacciati. In mano ha un bastone che termina a punta come quelli dei bovari e a tracolla un fucile di tipo militare a canna corta.
– Salutiamo – attacca lo sconosciuto con una cadenza diversa da quella cosentina.
– Salutiamo – risponde Lupinacci.
– Cosa si dice in questi paesi del brigante Musolino? – gli chiede lo sconosciuto, forse per attaccare discorso.
– Beh… qui non si è mai visto, e poi che dovrebbe venire a farci in questi paesi? – gli risponde, un po’ sconcertato per la strana domanda – perché me lo chiedete? Io niente so di cosa ha fatto e non ha fatto!
– Perché sono io Giuseppe Musolino! Sediamoci un po’ che vi racconto delle cose – gli fa, di rimando, il sedicente brigante. Lupinacci è sempre più sconcertato, vorrebbe andarsene ma quell’uomo ha una specie di calamita, parla bene, sembra affabile ed educato; il contadino si siede accanto all’uomo su di un grosso sasso e resta in ascolto – le vedete queste carte? – continua l’uomo togliendo dei fogli da una tasca – queste sono carte che devo mandare a un giornale per fare conoscere a tutti chi sono i veri banditi… e questa boccetta… – rimesse le carte in tasca ne estrae una boccetta di vetro con del liquido dentro – questa boccetta contiene del veleno. Se mi vedrò perduto lo berrò perché io in galera non ci torno più. Sapete, qui vicino, a Bisignano, c’è uno che mi ha fatto la spia e mi devo vendicare… ma lasciamo stare queste cose e parliamo di noi… – Lupinacci lo ascolta e lo guarda a bocca aperta – state andando a Rose? – al cenno di assenso, l’uomo continua – ho bisogno di un favore. Devo far recapitare una lettera alla moglie di un certo Ciezo, lo conoscete?
– Si, ma quello è il soprannome…
– Non importa. L’importante è che sapete chi è e dove abita. Adesso scrivo quattro righe per la signora e voi gliele consegnate, d’accordo?
– Va… va bene – accetta Lupinacci e lo sconosciuto, presi un foglio e una matita dalle tasche, comincia a scrivere:
Cara signora
Prego la signoria Vostra di mandarmi lire 200 non come ricatto, ma come limosina. Voi bene sapete se faccio del male ho pure del bene Vi prego di non fare conoscere niente alla forza se volete essere amici con me Mi farete il piacere di mandarmi qualche cosa di mangiare non fati conoscere nulla al porgitore perché lui non mi conosce racchiudeti dentro la busta il detto denaro
Vi saluto e mi dico
Vostro servitore
Giuseppe Musolino
Poi, il sedicente Musolino mette la lettera in una busta, scioglie alcuni zolfanelli con dell’acqua e con l’impasto sigilla la busta.
– Avete capito tutto? – fa a Lupinacci consegnandogli il plico.
– Si, ho capito – lo rassicura, poi continua – e per la risposta? Dove vi trovo?
– Non vi preoccupate, vi troverò io… dove abitate?
– Coltivo un pezzo di terra vicino al ponte sul Mucone, mi potete trovare là…
– Benissimo, ora andate.
Francesco Lupinacci mette in tasca la lettera e raggiunge il paese di Rose e comincia a chiedere in giro per farsi indicare con esattezza la casa. Poi, nella piazza detta della Madonna delle Grazie, incontra un suo conoscente, don Francesco Ranieri, possidente del luogo, col quale scambia qualche parola e gli fa la stessa domanda facendogli vedere la busta, dicendogli di averla avuta da uno sconosciuto.
– Uhm… è quasi aperta… leggiamola così ci regoliamo meglio – gli risponde Ranieri che tira fuori il biglietto, lo legge e continua – ah! Si, ho capito, tu vai dal Ricevitore che la lettera la consegno io e ti raggiungo così ti do una lettera per mio suocero.
Lupinacci va a fare quel che deve e Ranieri, invece, corre dai Carabinieri.
– Uno sconosciuto, poco fa, con atteggiamento sospetto mi ha chiesto l’indirizzo del signor Francesco Capalbo, soprannominato Ciezo, facendomi vedere questa busta. Io mi sono insospettito, me la sono fatta dare, l’ho letta e gli ho promesso di consegnarla direttamente… leggetela, leggetela per favore – fa, porgendo la busta al Brigadiere Cuzzocrea il quale, non appena legge la firma in fondo al biglietto fa un salto. Poi guarda don Francesco e poi di nuovo il biglietto. Un fulmine gli attraversa la mente: se il biglietto fosse autentico, se fosse davvero autentico, potrebbe essere lui ad avere, finalmente, la concreta possibilità di catturare il bandito sanguinario e una luminosa carriera gli si schiuderebbe davanti.
– Avete voglia di scherzare? Mi state prendendo in giro? Badate che… – dice a don Francesco mimando il gesto delle manette.
– Certo che no! Vi dirò di più… lo sconosciuto a cui ho preso la busta mi ha detto di essere di Luzzi e quindi lì deve tornare. Basterà appostarsi lungo la strada, seguirlo e aspettare che Musolino si faccia vivo per avere la risposta al biglietto. Semplice, no?
Al Brigadiere sembra tutto troppo facile, ma pensa che quella strategia sia l’unica che possa attuare e predispone un servizio di pattugliamento in borghese lungo la strada per Luzzi. Don Francesco, intanto, corre alla ricevitoria dove, come si aspettava, trova Lupinacci. Gli si avvicina e gli sussurra:
– Ti do un biglietto da portare a mio suocero a Luzzi, però, se vuoi un consiglio da amico vero, quando più tardi torni a casa cambia strada perché potresti trovarti in qualche grosso guaio.
– Di che guaio parlate? – gli chiede, perplesso, mentre prende il biglietto che don Francesco gli porge.
– Lascia stare, fidati, noi siamo amici… – e così dicendo lo lascia senza che Lupinacci possa replicare.
Ma perché don Francesco Ranieri al Brigadiere ha detto di non conoscere la persona che gli ha dato la lettera del sedicente Musolino? Sono amici, forse lo vuole proteggere dai guai penali che potrebbero venirgliene o c’è qualcos’altro sotto? Anche il Brigadiere Cuzzocrea, che nel frattempo individua e interroga Lupinacci, si pone la stessa domanda in un verbale: A quale fine dunque mirava il mistero del Ranieri? ma non ci sarà mai una risposta certa. Al giudice, né dietro parziali rettifiche delle sue dichiarazioni e né dietro le insistenti richieste di Cuzzocrea intese a indagare in modo più approfondito, viene da pensare a possibili secondi fini di don Francesco Ranieri.
Il servizio di pattuglia ormai è saltato e il sedicente Musolino non si fa vivo lungo la via per Luzzi, così il Brigadiere Cuzzocrea comincia a indagare sulla faccenda. Scopre che altre persone quel giorno e per un paio di giorni hanno avvistato uno sconosciuto con le caratteristiche fisiche di quello incontrato da Lupinacci e si dice che a qualcuno abbia chiesto la strada per la Sila ma non c’è niente di certo.
Di certo c’è solo che Francesco Lupinacci, un paio di giorni dopo, si imbatte di nuovo nel sedicente Musolino il quale gli chiede se c’è risposta al suo biglietto e, quando Lupinacci gli risponde negativamente, lui, con un sorrisetto, gli dice:
– Me lo aspettavo – e si incammina verso la Sila.
Poi, il 3 ottobre, la notizia bomba: un biglietto ricattatorio è stato consegnato, proprio in Sila al barone Adolfo Collice il quale sporge denuncia.
Illustrissimo Sig. Barone
Prego la signoria sua di farmi il piacere di mandarmi lire mille esendo sprovisto di mezzi necessrie io riguardo alla nomina suo o inteso del buon cuore e limosinamenti. Dunque io mi sono aprofittato della occasione non come ricatto ma come limosina pensati un povero sbantato e seguitato dalla Giustizia io non vorrei fare piu sangue e perciò voglio andarmene In America e non avendo denaro offatto questo sagrificio e perciò spero che S. Giuseppe sarà con voi
Si poi non voleti mandarmi lire 1000 mi mandareti quello che il cuore vi desidera come pure qualche cosa di latticino.
Rachiudo la presente con le lagrime ai occhi e mi dico il vostro Aff servitore Giuseppe Musolino
Rachiudeti dentro la busta il danaro e la darete al largitore senza conoscere nulla che non sa di me
La descrizione che il mulattiere del barone, Tommaso Costantini, fa del forestiero sconosciuto che gli ha dato la lettera, coincide con il sedicente Musolino avvistato a Luzzi, tranne che per il cappello, questa volta non biancastro e a larghe tese ma un berretto nero floscio. Anche la scrittura e la carta sono identiche. Ormai non si può più scherzare e le due denunce finiscono sul tavolo del Procuratore del Re, ma lo sconosciuto sembra essere svanito nel nulla e nessuno lo avvista più. L’ultima cosa che si sa di lui è che ha riferito a un pastore di camminare in direzione di San Giovanni in Fiore e poi da lì a Roma, ma è solo una voce e nient’altro.
La sera dell’8 ottobre 1901, nelle campagne circostanti Acqualagna, nelle vicinanze di Urbino, l’Appuntato Amerigo Feliziani e il carabiniere Antonio La Serra, comandati dal Brigadiere Antonio Mattei, stanno effettuando un servizio di pattuglia per cercare di catturare alcuni malviventi del posto.
Un uomo che sta camminando sulla stessa strada ma in direzione opposta, nota gli strani movimenti dei carabinieri e ha paura. Pensa che siano lì per lui e si mette a correre in un vigneto accanto alla strada per mettersi in salvo. I carabinieri lo notano, gli intimano l’altolà ma non ottengono l’effetto sperato e quindi si mettono a rincorrerlo. L’uomo sta per farla franca quando inciampa in un fil di ferro che sostiene un filare e cade pesantemente a terra. Non riesce ad alzarsi per riprendere la fuga e i carabinieri lo raggiungono e l’arrestano, ignorando con chi hanno a che fare.
Solo dopo qualche ora, in caserma, scopriranno di essere diventati degli eroi. Quell’uomo è Peppe Musolino il bandito.
– Chiddu chi non potti n’esercitu, potti nu filu – è l’amara considerazione che l’uomo più ricercato del Regno fa ai carabinieri.
Trasferito a Catanzaro sotto strettissima sorveglianza con un treno speciale, i giudici, oltre a chiedergli conto dei suoi orribili delitti, gli chiedono conto anche delle due tentate estorsioni in provincia di Cosenza e gli sventolano sotto il naso le due lettere a firma Giuseppe Musolino.
– La lettera che Vostra Signoria mi esibisce non è scritta né sottoscritta da me. Io non ho commesso mai reati contro la proprietà, né sarei stato capace di scrivere una lettera simile. Non conosco affatto Ciezo Francesco e non è affatto vero che abbia mandato al barone Adolfo Collice, che non conosco neanche di nome, una lettera con la quale si chiedevano mille lire e dei latticini. Non so dire dove mi trovassi il 3 ottobre perché nella mia latitanza non mi sono mai fermato in uno stesso posto, percorrendo località a me ignote, di bosco in bosco. L’individuo che ha scritto la lettera ha creduto di potersi valere del mio nome nella speranza di poter raggiungere il suo scopo. Io non ho portato mai fucile ad una canna e ho usato, ma solo qualche volta, il mantello. Tengo a dichiarare che non ho chiesto mai denaro a nessuno e se me ne fosse stato offerto l’avrei rifiutato perché non sono evaso dal carcere di Gerace per far denaro e sono disposto a subire qualunque confronto con tutti quelli che mi accusano di queste cose. Debbo fare osservare una circostanza che dimostra la mia estraneità ai fatti: sono stato arrestato vicino a Urbino l’8 ottobre scorso e siccome ho camminato quasi sempre a piedi e qualche volta a cavallo, la distanza tra la Calabria e le Marche è tale da non essere possibile che io il 3 ottobre fossi ancora in provincia di Cosenza.
A leggere bene tra le pieghe delle testimonianze relative a questa circostanza, qualche dubbio che la lettera ricattatoria sia stata consegnata al barone Collice il 3 ottobre esiste. Tommaso Costantino, il mulattiere che riceve la lettera, sostiene di aver portato la risposta del barone “con tre ore di giorno”, cioè alle 15,00. Il barone Collice intanto dichiara che la lettera gli è stata recapitata “in un giorno imprecisato di ottobre” e il mulattiere riparte quel pomeriggio stesso per far ritorno il mattino successivo, certamente prima delle 8,00 del 3 ottobre, ora in cui arrivano al casino di Contrada Federici, residenza del barone, i carabinieri della Stazione temporanea di Fallistro, ai quali viene consegnata la lettera. Dirà ancora il barone: “giorni dopo vidi i Carabinieri e li consegnai la lettera originale”. Giorni dopo! Ciò potrebbe voler dire che Peppe si sia incamminato abbastanza prima del 3 ottobre.
Ma poteva Peppe Musolino, camminando a piedi o al massimo a cavallo come sostiene, arrivare dalla Sila ad Acqualagna in soli cinque giorni o forse sette? Praticamente impossibile. Se invece avesse mentito sui mezzi di trasporto e avesse preso un treno da Sibari, ce l’avrebbe fatta ampiamente. E il fondato sospetto che abbia viaggiato in treno e non a piedi lo avanzano in tanti. Per esempio, in uno stampato pubblicato alla fine del 1901 dalla Tipografia Editrice Bideri di Napoli, si osserva:
Dicono ed asseriscono che Musolino sia fuggito in agosto dai monti della Calabria; ebbene, da nostre particolari informazioni, risulta in modo positivo che Musolino sia penetrato nelle campagne di Urbino con la ferrovia. Egli, deludendo la vigilanza delle guardie ha potuto con l’aiuto non si sa di chi, od anche solo, nascondersi in un vagone merci e così adagio adagio, come quel tedesco nella cassa, pervenire ad Urbino. Egli non poteva più rimanere nel vagone senza essere scoverto e si dette per la campagna. E dire che le Autorità non han riflettuto che, se avesse attraversato mezza Italia a piedi, i suoi abiti dovevano essere a brandelli, ridotto in uno stato compassionevole, ed invece era in abiti puliti e vestito piuttosto bene.
Il giudice gli fa ricopiare la lettera indirizzata al barone Collice e dispone una perizia calligrafica che, il primo febbraio 1902, stabilisce senza ombra di dubbio come le lettere siano state scritte proprio da Peppe Musolino, ma non basta. Viene ordinata una revisione della perizia e, l’11 marzo 1902, questa viene confermata punto per punto. E, in verità, la lettera indirizzata al barone Collice contiene un elemento che solo un attento lettore dei giornali, oltre a Musolino stesso, può conoscere: il richiamo a San Giuseppe a cui Peppe è devotissimo, tanto da fargli affermare che fu proprio il santo, in sogno, a indicargli il muro da scavare per evadere dal carcere.
Cercare di scrollarsi di dosso le accuse di tentata estorsione ha un senso, non tanto per alleggerire la propria posizione giudiziaria visti i capi di imputazione, quanto per mantenere inalterata la percezione che di lui ha l’opinione pubblica. Che figura ci farebbe se dopo aver sbandierato ai quattro venti di aver rifiutato i soldi offertigli da un notabile di Brancaleone, gli mostrò 1.500 lire cucite nella fodera della giacca (a proposito, come si è procurato quei soldi?), di aver regalato dieci lire a una ragazza poverissima perché si comprasse un abito nuovo, dopo aver scritto una lettera di scuse alla famiglia del carabiniere che si è visto costretto a uccidere per poter sfuggire alla cattura e dopo aver scritto una lettera (a quei tempi le lettere le sapeva scrivere!), pubblicata su un giornale, al Tenente dei Carabinieri al quale invece risparmiò la vita? No, Peppe Musolino è una leggenda vivente e queste cose non può concedersele[1]. Ma la verità è che Peppe Musolino non è una leggenda vivente, è uno ‘ndranghetista e non si allontanò dai suoi luoghi per andare a chiedere la grazia al re, ma per espatriare clandestinamente seguendo un lungo giro, praticato anche da tanti altri, passando dalla Svizzera dove esisteva una organizzazione che si occupava di espatri legali e non, fornendo documenti falsi e smistando i clandestini tra i porti di Marsiglia o Le Havre. La sua destinazione erano gli Stati Uniti e non Roma. La sua destinazione era l’impunità.
A Francesco Lupinacci, denunciato come correo, e agli altri testimoni che hanno incontrato il sedicente Musolino viene mostrata una fotografia scattata subito dopo l’arresto del bandito e nessuno si spinge al di là dell’ammissione di una rassomiglianza.
Le prove, confortate dalle perizie calligrafiche, sono ritenute sufficienti dal Giudice Istruttore: Peppe Musolino e Francesco Lupinacci sono rinviati a giudizio. Ma i due non verranno processati a Cosenza perché il procedimento penale viene accluso agli atti del processo principale, perdendosi nei meandri degli altri reati da discutere in aula.[2]
Questa vicenda, però, lascerà degli strascichi a Luzzi: il 18 maggio 1903 sei consiglieri comunali scrivono al Procuratore del re di Cosenza per accusare il Sindaco del paese e Francesco Lupinacci di essere manutengoli di Peppe Musolino al quale il sindaco avrebbe chiesto, in cambio del suo aiuto, di uccidere alcuni suoi avversari. Ma questa è un’altra storia, da leggere prossimamente…[2]
[1] La leggenda di Peppe Musolino ha lasciato tracce anche nella storia della criminalità cosentina: il 10 luglio 1902, mentre si sta istruendo il maxiprocesso alla malavita cittadina, nascoste nel pagliericcio di una cella del carcere, vengono sequestrati i testi di tre canzoni composte dai malavitosi, una delle quali si intitola VOCA DI MUSOLINO.
[2] ASCS, Processi Penali.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.