ZAPEPPA E’ NU CURNUTU – di Matteo Dalena

Zapeppa
è curnutu! E’ curnutu…
si vocifera dalle parti di colle Triglio la sera del
4 novembre 1907. Lo scatto del poderoso maschietto mìenzu arruzzato del
“palazzaccio” dov’è rinchiuso da pochi giorni in attesa di essere
scarcerato dopo aver scontato la condanna a 7 anni per associazione a
delinquere, è per lui un suono amaro. Sangue e libertà. Il primo tornerà a
scorrere: lo sa bene Francesco De Francesco, perché le mura delle patrie galere
hanno occhi ma soprattutto orecchie. La fibbia
ricevuta in barba all’ennesimo distratto secondino segna la condanna a morte di
un uomo: Nicola Bruno, operaio
cosentino, è un cadavere che cammina. La sua colpa è quella di essere l’amante
della moglie di Zapeppa, Raffaella
Crocco. L’infedeltà di Raffaella e il grave affronto dell’ominicchio devono essere lavati col sangue. L’onore è come un
castello fatto con le carte: grossa fatica a metterlo su ma poi basta un alito
di vento a spazzarlo via. Zapeppa non
è pratico di questo genere di sport ma
non ci pensa due volte a convocare il fratello della moglie medesima, Luigi
Crocco, insieme al pregiudicato Luigi Milizia, entrambi appartenenti alla società della mala vita.
In una schifosa bettola viene
pianificato il tutto: alle 21.30 del 7 novembre, i tre si apposteranno al
civico 14 di via Giostra Vecchia allo
scopo di sorprendere gli adulteri in flagrante delitto.
Luigi Crocco
partecipa senza indugio: il tradimento è una colpa grave per la quale ogni
legame di sangue è, almeno in teoria, nullo. Sul posto, all’ora stabilita, gli
amanti non si materializzano: qualcosa dev’essere andato storto. Forse la
soffiata dello stesso rinsavito fratello? Chi può dirlo…
Sta di fatto che i tre malviventi
decidono di fare quattro passi in
direzione del Teatro Grisolia dove però, sciaguratamente per loro, s’imbattono negli
agenti di forza pubblica Brunelli, Donnamaria
e Malannino. Uno degli sbirri riconosce il Milizia: su di lui pende mandato di
cattura per il ferimento dei fratelli Nicastro. Una delle tante storiacce della
malavita cosentina all’alba del “secolo breve”[1].
La prima lotta è un tre contro tre.
Le lame sono presto che sfoderate. A farne le spese è l’agente Donnamaria che
sanguina vistosamente dalla parte destra del collo. E’ un attimo: gli altri due
sbirri bloccano il Milizia e lo arrestano, mentre Crocco e Zapeppa col favore delle tenebre, sovrane dei fetidi e insidiosi
vicoli, si rifugiano nell’androne del palazzo dei Mari in via Abate Salfi. In
appoggio giungono gli agenti Failla e Ragusa che, scovati i due fuggitivi, si
apprestano ad irrompere nel vecchio stabile. Rivoltella in pugno, Giuseppe
Failla, muove i primi passi nella semioscurità dell’androne dove per via dei
giochi della poca luce, scorge le ombre dei due uomini armati di lungo pugnale.
– Devi buttare il coltello, subito, e
fare quello che ti dico! – esclama il coraggioso Failla, attento ad ogni minima
variazione di forma delle due ombre. Quel che accade è presto detto: per timore
di essere colpito Zapeppa lascia
cadere la lama ma in una frazione di secondo, al pari di una iena, si avventa
contro il Failla afferrandolo per il collo e tormentatogli il volto con
poderosi pugni. Mentre l’agente Ragusa impedisce al Crocco di aiutare il
compagno, la colluttazione tra la guardia e il boss che si batteva come un leone per la conquista della probabilmente
risolutiva rivoltella, entra nel vivo.
Booom! E’ un solo colpo a rimbombare su
per le scale dell’antica dimora. Con manovra
abilissima
il De Francesco era riuscito a infilare il dito nel grilletto
della rivoltella con l’intenzione che il colpo partisse in direzione del
Failla. Questi, però, con manovra altrettanto abile seppe difendersi alzando il pugno e facendo partire il colpo in aria.
Con molta fatica e a furia di spintoni
le due guardie riescono nell’intento di spingere i malviventi sino in Piazza
del Duomo, dove rinvennero alcuni
ufficiali che furono solleciti a correre in aiuto
. Ma nemmeno alla vista di tanta forza Zapeppa volle darsi per vinto:
con uno slancio fulmineo si scaglia contro uno degli ufficiali afferrando
l’impugnatura della sciabola ma non riesce a sguainarla perché un sonoro pugno lo coglie in pieno volto
facendolo stramazzare al suolo.
Così, il coraggioso Giuseppe Failla ha
avuto in un sol colpo ragione di un forse arrugginito Zapeppa che, più che tradotto, è trascinato insieme al Crocco nella
caserma delle Guardie di pubblica sicurezza. La parabola discendente di Zapeppa è appena cominciata. Persino la
stampa locale, abbottonata per tradizione, nell’occasione si sbilancia
guardando, per una volta, a monte di Zapeppa:
«Meritano
il più largo biasimo le autorità giudiziarie, prefettizie e di pubblica
sicurezza per la protezione che accordano a simile specie di malviventi. E
diciamo protezione perché non sappiamo trovare un sostantivo più… mite. Sì, per
Dio, nella legislazione nostra sono ben indicati i provvedimenti adatti a
liberarci da questa maligna genìa».

[1]
Gran
parte dei corsivi sono tratti dalla “Cronaca di Calabria” n. 97 del
17 novembre 1907

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